Note FOGOLÂR CIVIC pe stampe taliane – Udin, 14 Dicembar 2018
“UDINE IMPARI AD ESSERE DAVVERO ALL’ALTEZZA DELLA SUA STORIA DI CERNIERA DI GENTI!”
Il presidente del Fogolâr Civic, prof. Alberto Travain, è intervenuto alle celebrazioni del 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, organizzate dal Club per l’Unesco di Udine nella Capitale del Friuli Storico: “Pace non significa solamente scambiare frico con würstel lungo una frontiera che non c’è più, bensì promuovere una coscienza di ragioni antiche di fratellanza!”.
Se fosse rimasto, avrebbe centramente avuto un utile stimolo in più per riflettere sul ruolo di Udine come piccola capitale di pace e raccordo tra le nazioni della Mitteleuropa. Il sindaco prof. Pietro Fontanini, invece, se n‘era già andato quando, tra i relatori all’incontro pubblico organizzato il 13 dicembre 2018 nella Capitale del Friuli Storico dal Club per l’Unesco di Udine in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è toccato prendere la parola al presidente del Movimento Civico Culturale Alpino-Adriatico “Fogolâr Civic”, prof. Alberto Travain, Delegato Presidenziale del Club per l’Unesco di Udine per la formazione civica e la cittadinanza attiva oltreché Cancelliere dell’Arengo udinese e leader del Circolo Universitario Friulano “Academie dal Friûl”, del Coordinamento Euroregionalista Friulano “Europa Aquileiensis”, Conservatore del Coordinamento Civico Udinese “Borgo Stazione”. Introdotto dalla popolarissima presidente del Club Unesco locale, prof.ssa Renata Capria D’Aronco, il “tribuno culturale udinese” – come ama definirsi – ha parlato all’attenta platea di Sala Ajace in suadente madrelingua friulana. “Nel 70° della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, non mi dilungherò in un lapalissiano elenco delle mancate applicazioni concrete del suo disposto, ma desidererei richiamare l’attenzione su quelle che mi paiono personalmente, in un certo qual modo, delle ‘derive‘ nelle sue ricezione, interpretazione e rivendicazione. La Dichiarazione rappresenta, infatti, non solamente un ‘libro dei sogni‘, ma un ‘libro dei sogni da realizzare‘, alla cui concreta realizzazione, ancor prima dei consorzi, i singoli individui sono chiamati a contribuire, a mobilitarsi direttamente in termini di testimonianza affinché quei ‘sogni‘ possano divenire, nei diversi Stati, norma giuridica rispettata, tale, così, da disinnescare legittimi moti di ribellione contro percepiti regimi tirannici. ‘Se vuoi la pace prepara la guerra‘ dicevano i Romani di un tempo. ‘Se vuoi la pace prepara la giustizia‘ dovremmo dire noi. Ma giustizia può costituirsi soltanto come frutto di una difficile armonizzazione di contrastanti diritti, armonizzazione fondata su un dialogo che può procedere solamente dal riconoscimento di diritti opposti, non da reciproca denigrazione. Una mediazione tra diritti antitetici che la Dichiarazione affida nella pratica alle singole legislazioni statali, assunte concretamente quale arbitro locale dell’interpretazione fattiva e relativa degli assoluti proclamati nel grande documento. Quanta libertà e quanta disinvoltura, allora, nel giungere a quella mediazione? E questa, poi, certo, quanto influenzata, più che da supremo senso di giustizia e del bene comune, invece, da equilibri e rapporti di forza tra parti, classi, interessi incombenti? Senza indirizzi sovraordinati, quella mediazione non può risultare altro che un ostaggio dell’immanenza. La definizione di correttivi o contraltari universali ad un libero dilagare della retorica e della demagogia basata sul richiamo ai principi fissati genericamente dalla suddetta Dichiarazione aiuterebbe a creare e diffondere davvero una cultura onestamente pragmatica e propedeutica alla configurazione di quadri di legalità ma anche di programmi di lotta politico-sociale in linea di tendenza più oggettivi e perseguibili. Come si conciliano libertà e sicurezza dell’individuo (art. 3) se non attraverso una limitazione di entrambe? E come si concilia il sistema economico globalizzato del mercato libero – e delle delocalizzazioni tese ad abbassare l’incidenza del costo del lavoro sul prezzo dei prodotti alla vendita – con talune amenità sacrosante ad esso radicalmente opposte come l’affermazione in base alla quale ‘Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro‘ (art. 23)? Tutto questo, per non parlare delle pie condanne della schiavitù e della servitù. E come la mettiamo sul fatto che l’art. 26 definisce anche nel dettaglio a cosa deve mirare l’istruzione per poi riconoscere ai genitori una mal definita priorità di scelta in materia di formazione dei figli? E che dire dell’affermato diritto di ogni individuo ‘alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato‘ (art. 13)? Quante volte questa ‘Magna Charta‘ di settant’anni fa in linea di principio calpesta i diritti democratici sovrani delle nazioni in nome di un imperante cosmopolitismo che ora pare trovarsi a segnare il passo? Cosa abbiamo fatto nella nostra Europa e nel nostro Occidente della libertà di pensiero (art. 18), opinione, espressione (art. 19)? Abbiamo condannato il terrorismo islamico reo di calpestare la ‘nostra‘ sacrosanta libertà – occidentale più che universale – di offendere il credo degli individui. Al tempo della tragedia di Charlie Hebdo, non abbiamo soltanto esecrato gli assassini, ma ci siamo moralmente identificati in una sacrosanta, nostra, identitaria, libertà di offendere le credenze più intime, esercitata, nello specifico, da una satira dissacrante che abbiamo voluto sacralizzare. Abbiamo, infatti, sacralizzato quelle libertà, rese intoccabili, insindacabili, e ciò ricercando e trovando ragioni in quella stessa Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proclama la tutela della dignità di tutti i membri della famiglia umana. C’è qualcosa che non va! La ‘communa felicitade‘, la felicità individuale e collettiva, che, prima ancora di essere affermata come primario scopo dei governi nella famosa dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, si ritrovava già mentovata, come principio, anche nelle Costituzioni friulane del Quattrocento, non può derivare da un’autorinuncia a veder rispettati i propri sentimenti. Queste libertà, anche se autorizzate dalle normative, non possono considerarsi giuste, perché ipoteca ad una felicità che non può essere tale se non condivisa, se non, per l’appunto, ‘communa felicitade‘!”. Detto questo, Travain è stato chiamato ad esprimere una riflessione anche sul tema della 18^ edizione del premio internazionale “Udine Città della Pace” promosso dal Club Unesco cittadino. “Udin al veve di celebrâ i cent agns de fin de Prime Vuere no cjapant part pe Italie o pe Austrie ma dome pal Friûl dividût in doi e duncje pe pâs parsore dai confins imponûts ai popui di chei che a comandin. No sôl mai plui capitâl di une vuere, ma nancje une lamie capitâl di pâs: Udin bisugne che al cjapi mani de sô biele storie metropolitane internazionâl, rigjitât di Aquilee, par spindisi in dut tal unî e dâ cussince di union aes gjernaziis de Mittel-Europe!”: così il professore, raccordo di tanto civismo friulano, il quale ha ribadito l’auspicio che “Udine impari ad essere davvero all’altezza della sua storia di cerniera di genti e non di frontiera degli uni contro gli altri”. Un richiamo, quindi, rivolto innanzitutto all’Amministrazione: “Pace non significa solamente scambiare frico con würstel lungo una frontiera che non c’è più, bensì promuovere una coscienza di ragioni antiche di fratellanza!”.