EuroAquileienses 31.01.2021/I (fur)

Note FOGOLÂR CIVIC pe stampe taliane – Udin, 31 Zenâr 2021

GIORNATA FRIULANA DI MOBILITAZIONE CONTRO LA PRECARIETÀ” IN MEMORIA DI MICHELE VALENTINI

Una coccarda civista e la lettera del giovane suicida locale, ribelle al precariato lavorativo ed esistenziale contemporaneo, hanno siglato, presso lo storico pozzo udinese di San Giovanni, antico simbolo di rivolta sociale, la nuova scadenza culturale civista, istituita dall’Arengo cittadino. Il presidente del Fogolâr Civic, prof. Travain, promotore dell’iniziativa: “Una crociata da combattere per la ‘communa felicitade’!”.

Titolare della Capitale del Friuli Storico ed erede morale della cosmopolita grande metropoli alpino-adriatica di Aquileia, la cittadinanza udinese, riunita in arengo il 30 settembre 2019 presso la prestigiosa sede universitaria locale di Palazzo di Polcenigo o Garzolini di Toppo Wassermann, dichiara la scadenza del 31 gennaio Giornata friulana di mobilitazione contro la precarietà, commemorativa del suicidio del giovane corregionale Michele Valentini, avvenuto nel 2017 quale atto di protesta estremo in faccia al precariato lavorativo ed esistenziale contemporaneo”. In ossequio a quel sollecitato disposto dell’Assemblea popolare cittadina, a Udine, sabato 31 gennaio 2021, di buon mattino, presso lo storico pozzo locale di San Giovanni, antica memoria di rivolta civile delle genti friulane, la presidenza del Movimento Civico Culturale Alpino-Adriatico “Fogolâr Civic”, insieme all’Associazione Udinese per il Recupero della Democrazia Storica Partecipata “Pro Arengo Udine”, al Circolo Universitario Friulano “Academie dal Friûl”, al Club per l’Unesco di Udine, al Coordinamento Civico Udinese “Borgo Stazione”, al Coordinamento Euroregionalista Friulano “Europa Aquileiensis” ed al Sovrano Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, Cipro, Rodi, Malta e San Pietroburgo, ha deposto una coccarda civista recante i colori di Madre Aquileia, uniti al bianco della cittadinanza universale, e lo slogan trilingue, in friulano, italiano ed inglese, “Jù cuintri dal mâl di vivi e lavorâ malcierts! / Lotta al precariato esistenziale e lavorativo! / Fight against existential and job precarity!”. Accanto alla coccarda, nella semplicità e fragilità di un foglio a sfidare l’avversità del tempo e degli uomini, copia della nobile lettera del giovane tarcentino, Michele Valentini, che il 31 gennaio 2017 compì l’estremo gesto di togliersi la vita, sorta di Catone Uticense classico, in faccia ad un tiranno rappresentato, non più certamente da Giulio Cesare, ma da un sistema socio-economico e culturale minante dalle fondamenta la dignità e la convivenza umane. Eccone il testo, qui riproposto con il più deferente ossequio: Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. A siglare la cerimonia, una nota del presidente del movimento del Fogolâr Civic, prof. Alberto Travain: “Oggigiorno la precarietà pervade ogni aspetto del nostro vivere, ora per nostra scelta di disimpegno nei confronti altrui, ora per scelta altrui nei confronti nostri. E queste sarebbero la libertà e la gran civiltà che vorremmo difendere da nuove incombenti invasioni barbariche? ‘Biele robe!’ si direbbe in friulano. Una condanna-invito a una cultura dell’effimero, più pratica, per chi detiene le leve del potere, in termini di gestione delle pretese e delle istanze individuali e collettive, di quanto non possa essere, in mille settori, una diffusa ricerca di stabilità che, da sempre, muove il genere umano a caccia di legittime sicurezze. Il precariato lavorativo ma anche esistenziale dei nostri tempi è un orrendo tiranno, ladro di orizzonti, sogni, progetti, di identità e libertà. È un falso idolo, creato e promosso, per il proprio lurido tornaconto e capriccio, da quanti felicemente reggono le sorti della nostra società globalizzata, sostenuti da infinito stuolo di locali patetici epigoni nonché da un mare di poveretti costretti a forza a piegare il capo al turpe ricatto dell’esclusione. Tale diffusa precarietà, che inchioda milioni di persone al richiamo di basilari necessità contingenti legate a un’esistenza continuamente da riprogrammare, sottrae, certo, da un lato, enormi energie al potenziale innovativo e migliorativo dell’Umanità; dall’altro, come contraltare, essa può anche essere scintilla per moti radicali volti a sovvertire, in vari settori e regioni del mondo, l’ordine costituito ed imposto. Lottare, ovunque, localmente, contro un’idea di precarietà tradotta, anche dalla stessa legislazione italiana, ad esempio, in un sostanziale diritto all’arbitrio facilitante l’interruzione brusca tanto di rapporti lavorativi quanto di vincoli familiari, significa combattere, casa per casa, strada per strada, una santa crociata per una civiltà in cui la religione suprema sia quella della ‘communa felicidade’ cui si accennava nelle antiche Costituzioni friulane e si esaltava, in Età Moderna, nella Dichiarazione d’Indipendenza USA: una felicità non somma di egoistici personali capricci, bensì inclusivo bene collettivo integrante utilmente e positivamente ogni individualità! Utopia o semplicemente l’unica battaglia che meriti di essere combattuta? ‘Ed il sangue de’ spenti nuovo ardir ai figliuoli viventi, forze nuove al pugnare darà’ cantava enfatico un coro dell’Ernani di Giuseppe Verdi: il nostro Michele non è morto da debole, da sconfitto e non è morto invano”. Nota commemorativa è stata inviata anche alla famiglia.

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